Dieci mea culpa e un vaffanculo

Chiunque dovesse trovare strani commenti su Splinder firmati a mio nome sappia che la mia unica colpa è stata quella di essermi connessa una volta dal computer dell’asilo nido qui di fronte.
Per strani intendo strani, non dovreste avere dubbi nell’individuarli.
Comunque, la cosa non dovrebbe ripetersi più. In caso contrario avvisatemi, vedrò di eliminare il problema alla radice.

Grazie dell’attenzione

Vostra, Lorena Bobbit

 

Riflessioni sulla scrittura reloaded

Se n’è già parlato molto; sul sito di Ioepalmasco, ad esempio, è materia di discussione da sempre. Ma il tema è ghiotto e ciclicamente ritorna a farsi vivo altrove, stavolta da Herzog e da Mitì.

Il primo prende le distanze da un’artificiosità  che, a suo dire, lo scrittore su carta può permettersi in virtù di un medium meno “volatile”, più adatto alla sedimentazione. Il linguaggio del blog, di contro, necessita di maggiore leggerezza, rivelandosi forzosamente più spontaneo, meno filtrato.
Mitì parla della propria esperienza con il blog sottolineandone l’impianto fintamente leggero, scorrevole, scabro, in contrapposizione (solo formale) con una scrittura cartacea ben più meditata e cesellata.
Essenzialmente trovo che esprimano lo stesso pensiero solo con stile diverso, e già  questo servirebbe a dimostrare quanto non sia il contenuto a incidere sulla forma.
Segue una sequela di commenti a entrambi i post, tutti interessanti, alcuni particolarmente degni di approfondimento, ma non + questa la sede adatta.

Io ho lasciato i miei two cents da Mitì, puntando la mia attenzione soprattutto sulla genuinità  dell’intento che sta dietro le differenti modalità  di scrittura.
In breve, credo siam tutti d’accordo sul fatto che la lingua sia uno strumento; come tale va gestita relativamente all’uso che se ne vuole fare. Sotto questo aspetto mi pare non abbia senso fare differenziazioni tra blog, libro, discorso: tutto nasce dall’intenzione che si cela dietro le parole. Se voglio raggiungere un pubblico il più possibile vasto – e ho un cervello pensante – userò un linguaggio scarno, semplice; se invece mi rivolgo a una porzione di specialisti ne esco meglio attingendo a un vocabolario composito, parcellizzato.
Qui nei blog succede un po’ la stessa cosa: c’è chi scrive per essere letto da tutti, perché ha voglia di “darsi”, di arrivare a un pubblico il più possibile eterogeneo e chi no, per timidezza, per snobismo o per puro e semplice disinteresse dell’altro. Una discriminante da non sottovalutare è se scrivo per diletto o se lo faccio per andare all’arrembaggio.
Per quanto mi riguarda l’importante è che dietro le parole io intraveda una sincerità  di fondo, un’onestà nel mostrarsi, che la scrittura mi riveli la persona e non un’interfaccia decisa a tavolino. Quello che mi interessa è che mi arrivi un messaggio forte e chiaro, non equivoco, sporco quanto si vuole, fuori, ma limpido nelle intenzioni. Che poi lo stile sia arzigogolato, lineare, barocco o neorealista quello è legato al personalissimo vissuto di chi scrive e non ci metterei bocca.

 

Chissà cosa ne penserebbe Orwell

Il governo spagnolo si appoggerà  al reality Gran Hermano per assicurarsi il sì al referendum del 20 febbraio sulla Costituzione Europea.
L’idea è venuta al Vicepresidente spagnolo, Mari­a Teresa Fernandez de la Vega, impressionata dal fatto che 11.000 persone abbiano smesso di fumare a seguito di una campagna antifumo promossa dal Grande Fratello iberico.
En passant, il GF spagnolo va in onda sul berlusconiano Tele Cinco.

La blogosfera che mi piace 1 e 2

Prendi Pinocchio e gettalo in pasto ai blogger. Il risultato, mirabile, chez Strelnik.

Tra i primi a raccogliere gagliardamente la sfida – a seguire brevi estratti, spero si possa fare -: Cadavrexquis (macché mare, l’era un campeggio finocchio a nord di Amsterdam), Babsi Jones (non vi pare un bell’assortimento, il Burattino e la Guerra Santa?), Shooshee (Pinocchio famoso e infelice), Demetrio (In principio fu legno, e fu legno pure la fine), Dielleemme (Pinocchio attacca il telefono e si prepara per la festa dei Lions), Infandum (nessuno fermerà  il mio burattino, pensa. Nessun tarlo o barricata), Errore 404 (si avverte lo scatto secco della giuntura di legno, e l’illusione sfuma), Mirumir (Il compagno P. confessò tutto, promise, giurò), Aitan (La fata spalanca le cosce), Orazio Sorgonà  (sei la soluzione alla mia questione dei bambini che escono dal cavolo), Musasilenziosa (Non sono un buon padre, non in inverno), Ohmygod (In paese correva voce che Geppetto fosse pazzo), Dinottenote (Non è una fata? E’ la donna del capo).
Ci sarà  ben un personaggio collodiano che vi sta sulle palle o su cui avreste due paroline da aggiungere, no? Allora, fuori il rospo.

* * *

L’idea nasce su un sito angloamericano: microstorie nello spazio di 25 parole. Una specie di haiku in prosa. La segnalazione parte da Brodoprimordiale e viene ripresa da Zu; qui i primi esperimenti in italiano.
Non siate timidi. Ché, come disse quella, Italians do it better.

La zona del crepuscolo

Ho finito le sigarette e sono in una zona della città  che non riconosco più, l’insegna tabacchi è accesa, inchiodo l’auto ed entro.
La facciata del bar è la stessa di vent’anni fa, stessa porta in legno azzurro, stessi vetri ruvidi e opachi. Per primo registro l’odore, rancido e pungente, poi un grosso pastore tedesco esce da dietro il bancone e viene ad annusarmi i polpacci. Lo ricordo quel cane, che mi frega se è impossibile, è lo stesso animale che si mise ad abbaiare il pomeriggio in cui entrai di corsa nel bar.
Sto giocando a nascondino con gli altri ragazzini del quartiere, il bar mi sembra un nascondiglio perfetto e infatti non mi trovano. Resto lì a guardare degli uomini giocare a briscola, il pomeriggio trascorre così, il proprietario mi offre una cedrata.
Lo stesso uomo ora mi viene incontro caracollando, mi chiede sgarbato “che vuoi”, cerca di fottermi dieci euro sul resto, butta il pacchetto sul bancone, le mani malferme e rugose.
Durante il suo tragitto dalla cucina al bar osservo il locale: sono finita a Inverary, la zona del crepuscolo. E’ qui che si fanno esperimenti di mesmerismo per fermare il tempo e chiudere la vita all’interno di una dimensione spazio-temporale circolare, infinita quanto falsa.
Voglio chiedergli se si ricorda. Il suo sguardo mi suggerisce di no, i miei occhi mi implorano di andarmene. Deglutisco, ringrazio ed esco in fretta dal locale.

Dubito ergo nescio

Dopo aver riportato sul blog (v.post precedente) la notizia apparsa il 15 novembre sul sito di Reporter Associati, sono andata a cercare in giro come una dannata uno straccio di notizia che la avallasse. Niente, né sui siti di lingua italiana, né su quelli inglesi, né su quelli spagnoli.
Ora, premettendo che ho sicuramente commesso un errore andando a cercare un confronto dopo aver pubblicato il post e non prima, mi chiedo come si determini l’attendibilità di una notizia raminga. In questo specifico caso non ci sono conferme ma non ci sono nemmeno smentite, laddove – considerata la fonte – mi sarei aspettata un intervento, che so, dell’ordine dei giornalisti, o che se ne parlasse in giro quantomeno per dare addosso all’untore. Niente.
A questo punto mi viene da pensare che l’intento di Reporter Associati fosse quello di instillare un dubbio, non di informare, giacché la fonte considerata autorevole è rimasta anonima. Suppongo non sia etico, o l’etica in una situazione del genere non è di primaria importanza, visto la posta in gioco?
Da parte mia la scelta è quella di lasciare il post là  dove si trova, diciamo per instillare il dubbio che ci sia un dubbio da instillare. E morta là.

E blackout fu

Sul sito di Reporter Associati in data 15 novembre è stato pubblicato un ampio e documentato articolo che sfronderebbe alcuni dubbi residui sulla cosiddetta “battaglia dell’aeroporto” di Baghdad, conclusasi con la resa improvvisa e totale da parte delle forze armate irachene. Nell’articolo si fa ampio riferimento a una raccolta di documenti che comproverebbero l’utilizzo di armi di distruzione di massa da parte dell’esercito USA in quella precisa occasione.
Questa l’ipotesi:
Tra il 6 e il 7 aprile 2003 nell’aeroporto Saddam Hussein di Baghdad l’esercito statunitense avrebbe fatto uso di una piccola bomba atomica, una bomba a neutroni (per la cronaca, un ordigno capace di annientare gli esseri umani e lasciare intatti gli edifici). La notizia arriva da una fonte che Reporter Associati dichiara autorevole ma lasciata volutamente anonima. La bomba avrebbe fatto strage di militari iracheni (circa diecimila, la cifra ipotizzabile), ma anche di moltissimi americani.
Queste, tra le altre, le prove:
Ai familiari delle vittime irachene non è stato possibile riavere le salme per la sepoltura. Un giornalista di Indymedia-San Francisco dopo aver visto la foto delle salme ha dichiarato: è come se i corpi fossero stati fusi.
La popolazione adiacente all’aeroporto ha sofferto di una forma di epidemia i cui sintomi erano lesioni cutanee, perdita dei capelli, febbre, macchie della pelle. La stessa epidemia avrebbe colpito anche molti militari americani, prontamente trasferiti all’ospedale di Washington, visto che presso i nosocomi sul Golfo Persico non si riusciva a garantirne la cura.
L’aeroporto di Baghdad è rimasto chiuso nove mesi dopo la sua conquista da parte dell’esercito statunitense.

Io dico che, per non saper né leggere né scrivere, male non farebbe dare un’occhiata al sito di R.A. Dico anche che la verità, qualunque essa sia, verrà fuori quando tutti noi, nella migliore delle ipotesi, ci nutriremo solo di pappette insipide. E aggiungo che, se la verità è quella delineata qui sopra, sarebbe interessante capire come le forze della coalizione possano aver usato un’arma di distruzione di massa in una guerra che ufficialmente è stata fatta proprio per combattere le armi di distruzione di massa. A tutt’oggi mai trovate in Irak.

Grazie Pierre.

Typhoon

La bora mi ha afferrato le caviglie, l’ho lasciata fare e si è infilata sotto i pantaloni, ha cominciato a risalire la gamba, a fare surf sui jeans, allora ho dato uno strattone alla mano che stringeva la mia, ho pensato sono un palloncino, cazzo tiri, lasciami, ho sollevato il cappuccio del giaccone e mi sono piantata lì, sul muretto del porto mentre il vento soffiava a centoventi all’ora tutto intorno, ho allargato le braccia e incurvato il corpo all’indietro e sono rimasta così, con la faccia rivolta verso il cielo e vedevo tutte le foglie che mulinavano nell’aria, sono pronta per staccarmi da terra, guardami, ridevo, lui ha urlato qualcosa ma il vento fischiava forte e si è portato via le parole e non me ne fregava niente di quelle parole perse e allora basta così, il gioco è finito. Ho inclinato in avanti prima la testa poi il busto, allungato un braccio verso di lui, ripreso posizione e siamo corsi a ripararci dal vento.

Quattro di quattro

Stasera mi sono lasciata sprofondare nelle maglie di un affetto antico. E’ stato un po’ come buttarsi all’indietro e dubitare per un breve istante e commuoverti quando avverti la presa.

Gorizia. Interno notte. Tre uomini e una donna siedono attorno a un tavolo. C’è una luce calda nella stanza che rivela i chiaroscuri dei volti. I tre uomini sono belli e stanno invecchiando; la donna li osserva e riconosce gli strati che il tempo imbecille ha distribuito sui loro corpi. Ma è un momento, e con gli occhi glieli strappa di dosso. Il fumo delle sigarette disturba quello che ha smesso di fumare, il Rosso d’Avola ha reso uno di loro più allegro, un terzo si vanta delle sue conquiste, tutti gli altri lo prendono per il culo, il quarto prende il coraggio a due mani e comincia: volevo dirvi che. E avverte la presa.